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Voci
Il suono della poesia/2
Giovanni Fontana, Eugenio Miccini, Nicola Frangione, Mauro Dal Fior,

(a cura di Agostino Contò)

Sabato 16
ore 22.15 - 23.30

Società Letteraria di Verona


POSTILLA
Arrigo Lora Totino
POESIA SONORA: CIO' CHE E'

Rispondere alla domanda in che cosa consista la poesia sonora, non è così semplice come parrebbe a prima vista.
Si può replicare che nella fattispecie la forma del testo è costituita dall'evento sonoro. Che se poi si dà una qualche traccia scritta, pure articolata con una certa qual accuratezza - ma non sempre ciò si verifica, come nel caso delle improvvisazíoni - tale orditura rappresenta unicamente la base, se vogliamo lo spartito, sul quale solo la viva voce può costituire la propria ragion d'essere formale.

Ma chi può farlo se non 1'autore stesso del poema? Poiché l'interprete, l'attore, o il cosiddetto "fine dicitore" giammai attingeranno alla tensione inequivocabile della sua propria vocalità verbale.

E' per questa ragione che alcuni fra i più interessanti autori sonori francesi, come Henri Chopin o Bernard Heidsieck, hanno più volte affermato che la poesia sonora è nata nel momento che il poeta ha potuto usufruire dei mezzi elettronici di registrazione, e cioè verso il 1950. Affermazione a nostro avviso discutibile, ma non da sottovalutare.

E' innegabile che la poesia sonora nasce allorquando il poeta sente prepotente ll'urgenza di uscire dalla pagina scritta. Già Mallarmé nel "Coup de dés" (1898) ne aveva dilatato i confini, immergendo il verso o i suoi frammentí nel silenzioso candore d'una successione filmica della pagina. Un decennio più tardi, nel periodo 1911-14, Henri Martin Barzun, con Fernand Divoire e Sébastien Voirol, scindono la voce monocorde del verso nella molteplicítà simultanea: il verso scompare, sostituito dal plurivocalismo. Di poco posteriore sopraggiunge l'esplosione delle parole in libertà futuriste ove, da un lato, il testo stampato si fa spartito splendidamente optofonetico, e, dall'altro, l'evento sonoro si realizza nella declamazione dinamica e sinottica delle ben note serate futuriste, ben presto seguite da quelle dadaiste del Cabaret Voltaire a Zurigo e poi nelle sale parigine.

Contemporaneamente l'avanguardia letteraria russa, con Velemir Chlebnikov e Aleksej Krucenych, crea il linguaggio transmentale dello "zaum", ove lo smottamento sonoro fra radici verbali e sufiissi e prefissi dà forma a inediti amalgami che anticipano le successive scomposizioni e ricomposizioni lessicali di Arno Holz e di Joyce. Ciò nonostante, mancava la presenza della voce del poeta con l'eccezione estemporanea delle serate futuriste, cubofuturiste e dada, e dei due dischi di Marinetti (1930) e di quello di Fernand Divoire ( 1931 ), che ne restituiscono un pallido riflesso perché la timidezza di tali riproduzioni è ben lungi da darci 1'ebbro e concitato intreccio dell'evento pubblico. Il che vuol dire che non sarà mai 1'interprete, se non in casi eccezionali, ma solo 1'autore che potrà darci tutto se stesso nelle sue esplosioni verbofoniche.
Per concretizzare questo assunto faccio solo due esempi. Con "Memoria di Depero" (nel catalogo Fortunato Depero, Bassano del Grappa, Museo Civico, luglio-settembre 1970) Carlo Belli, il pittore e teorico dell'arte astratta di "KN" (1933), ci dà una viva descrizione del Depero poeta sonoro: "In quelle sue corte poesie, in quei brani che scriveva di getto, era `visibile' una intensificazione di piani sonori, una concatenazione di concetti che si attraversano, creando nuove dimensioni e lasciando tuttavia il discorso chiarissimo. A un certo punto, preso dalla musica delle parole e direi anche dalla sensualità della fonetica, arrivò a sacrificargli il discorso, e inventò 1'onomalingua... che poteva dare soltanto ritmi e suoni... Sento ancora la sua voce straordinariamente mobile quando mi scandiva:

Ambla no-òffa èmbla carèmba
narici pèndule
matercolòstro

Non avevo sempre la forza di guardarlo nel momento in cui irrompeva in queste filastrocche sonore: secondo 1'intensità, la grassezza o 1'asciuttezza dei suoni, le sue labbra si piegavano a esprimere uno sprezzo violento, il suo volto si schiariva in una improvvisa illuminazione, oppure i suoi occhi diventavano feroci spilli di catrame. Ne scrisse molte e io le copiai con diligenza e poi persi il quaderno".

Ancora più tangibile è l'episodio del testo radiofonico "Pour en finir avec le jugement de Dieu" di Antonin Artaud. Se si ascolta 1'edizione integrale quale fu registrata alla radio francese nel novembre del 1947, salta subito all'orecchio 1'acuto contrasto tra "le monologue tour à tour délirant, extatique et absurde" dell'autore che "méle le blasphème à 1'obscenité, le langage saccadé avec des cris désarticulés" ("L'Aurore" del 6.2.1948) e le dizioni accademicamente `desuete' dei pur validi attori quali Maria Casarès Roger Blin e Paule Thévenin. Artaud modula la propria voce trasfigurandola: ora 1' acutizza in gracidio di senilità isteriche, ora 1'esacerba col fiele del dileggio, ora 1'indugia in pause ipertese per meglio assestare 1'anatema.
E' dunque l' avvento della tecnologia di registrazione della voce, che ha permesso al poeta tutta una serie di esperienze sul materiale sonoro del linguaggio, come già aveva preconizzato Luigi Russolo ne "L'arte dei rumori" (Edizioni Futuriste di `Poesia', Milano, 1916), esperienze che hanno provocato un diverso e più approfondito esame dell'evento parlato, influendo sul modo stesso del `porgere la parola' con inedite sofisticazioni vocali in una specie di fecondo corto circuito tra ricerca tecnologica e mimica vocale. E forse siamo solo al principio.
Maggio 2003


PER IL TRIO PHOESIA

Il linguaggio è -prima di tutto- flusso sonoro che riguarda il circuito orale-aurale. L' esercizio della scrittura ha comportato, nella tradizione occidentale, una deprivazione dei valori che erano invece presenti ai primordi -al tempo degli aedi omerici o dei trovatori provenzali. La rivalutazione e riproposta di tali valori -ritmo, intonazione, timbro- ha un nome: poesia sonora. Controllando l' intonazione, il poeta può creare la melodia del parlato, tutt' altra cosa rispetto a quella musicale: essa combacia perfettamente con il significato, non con l' astratto musicale. Controllando il ritmo, il poeta può realizzare cadenze lente o veloci o medie con una precisione inammissibile nella poesia tradizionale. Controllando il timbro della voce, ciò che fa intuitivamente e per conto suo un bravo attore, il poeta può colorare armonicamente il suo dire. Ma c' è di più. L' autore può creare polifopnie simultanee a più voci. E, infine, il poeta esce dalla sua torrre d' avorio, trova il suo pubblico e, nel contatto/agone che si stabilisce tra i due protagonisti del fare poetico, la tipica concentrazione lirica del discorso si fa "teatro della parola" , spettacolo dello specifico poetico. La poesia sonora è una delle più feconde invenzioni delle avanguardie classiche: futurismo italiano, zaumismo russo, dadaismo, neoplasticismo, lettrismo.

FILIPPO TOMMASO MARINETTI
Da "La declamazione dinamica e sinottica" (1916)

[...] Ciò che caratterizza il declamatore passatista è l'immobilità delle suie gambe, mentre l'agitazione eccessiva della parte superiore del suo corpo dà l'impressione d'un buratino affacciato a un teatrino di fiera e impugnato di sotto dal burattinatio.
Col novo lirismo futurista, espressione dello splendore geometrico, il nostro io letterario brucia e si distrugge nella grande vibrazione cosmica, così come anche il declamatore deve anch'esso sparire, in qualche modo, nella manifestazione dinamica e sinottica delle parole in libertà. Il declamatore futurista deve declamare con le gambe come colle braccia. Questo sport lirico obbligherà i poeti ad essere meno piagnucolosi, più attivi, più ottimisti [...]